Esegesi storica ed esegesi pastorale

Dalle opere del grande biblista Giuseppe Ricciotti (1890-1964), un capitolo del prezioso volumetto Bibbia e non Bibbia, Morcelliana, Brescia 1946 (IV ed.), pp. 18-29. Un’accorata difesa dell’esegesi storica, che suona ancora attuale.


Puncta dolentia

I nostri bravi medici del tempo andato, tastando su un corpo malato, rilevavano accuratamente il punctum dolens, e da quello si orientavano per la diagnosi. Il termine può sembrare oggi un po’ empirico: ma in pratica valeva assai; fissato il punctum, spesso si arrivava a spiegare il dolor. Vediamo di seguire questo sano empirismo, lasciando a chi spetta il compito di una diagnosi strettamente scientifica.

In primo luogo: è abbastanza diffusa fra cattolici l’opinione – chiaramente espressa, o almeno inconsciamente seguita – che una buona preparazione teologica sia sufficiente per trattare della Bibbia. L’errore è grossolano, perché confonde il fattore «sufficiente» col fattore «necessario».

Che la preparazione teologica sia necessaria, la Chiesa l’ha affermato in cento documenti e nessun cattolico vorrà negarlo: ma essa non ha mai affermato che tale preparazione sia sufficiente; che anzi i suoi documenti e le sue iniziative, specialmente le più recenti, per favorire gli studii strettamente biblici come succedanei e completivi di quelli strettamente teologico-sistematici, dimostrano che secondo il suo pensiero i primi sono qualche cosa di più che i secondi. Di solito, e così nel caso nostro, «sufficiente» dice più che «necessario». L’aria è necessaria per tenere in vita un corpo umano; ma, purtroppo, non è sufficiente, giacché fino ad oggi nessun uomo è vissuto di sola aria. Per un teologo è necessario sapere che Gesù è vero figlio di Maria, ma ciò non è sufficiente per la sua scienza cristologica; per un biblista è necessario sapere quanto la Chiesa insegna sull’unica persona e la duplice natura di Cristo, ma ciò non gli sarà sufficiente per una biografia storica di Gesù.

Oltre al fondamento necessario ci vogliono molte altre cose al teologo, e assai di più al biblista, per esser veramente tali: se è vero che le fondamenta dei due edificii sono uguali, è pure vero che l’edificio teologico è ad un solo piano, quello biblico è a due. Sommariamente parlando, il biblista è un teologo, ed è in più un paleografo, un filologo ed uno storico-critico.

Altro malinteso da eliminare, anch’esso certamente assai diffuso in maniera più o meno cosciente, è che la Bibbia sia un formulario di sentenze, o teologiche o ascetiche, bell’e pronte – così come giacciono – ad essere utilizzate ed applicate. Precisiamo, per evitare facili equivoci. Un codice penale, un sillabo di proposizioni teologiche condannate, sono formularii di tal genere. Il giudice ricorre al codice sotto il titolo e il paragrafo tali; vi trova esattamente delimitata l’azione delittuosa, e poi appresso fissata la rispettiva pena: tutto vi è chiaro (salvo casi eccezionali), l’articolo in questione basta a sé stesso, e il giudice, astrazione fatta dal resto, giudica secondo quell’articolo: lo applica cioè nella sua rigida integrità, senza togliervi né aggiungervi una parola, e anche senza ricercare le vicende storiche di quella disposizione giuridica, i suoi paralleli presso altre legislazioni, il suo valore assoluto e relativo nel campo filosofico, ecc.

Scriptum est nel codice, debitamente promulgato e non mai in seguito abrogato, e ciò basta a dare a quelle parole interpretate nel loro senso ovvio la forza legale odierna. Un sillabo di proposizioni condannate è qualcosa di analogo. Le proposizioni erronee sono ivi elencate, ciascuna a sé, presentate in termini chiari e precisi, e formano enunciati di un valore logico immutabile in qualunque circostanza di luogo e di tempo: perciò chi sostiene come vero l’insieme dei termini che formano una di quelle proposizioni, in qualunque luogo o tempo ed astrazione fatta da altre proposizioni, è dichiarato in errore dall’autorità che ha ufficialmente promulgato il sillabo. Il principio dello scriptum est si attua anche qui nel suo procedimento matematico. Si quis dixerit hoc + hoc, anathema sit. Se un Tizio, in qualunque luogo o tempo, in forza di qualsiasi suo raziocinio, per qualunque scopo, ecc, finché il sillabo è in vigore, afferma come vero l’enunciato hoc + hoc, è anatema: essenziale è il preciso enunciato della proposizione, mentre da tutto il resto l’autorità anatematizzante astrae.

Tutto ciò è elementarissimo, ma in pratica è troppo spesso negletto nei riguardi della Bibbia. Che essa contenga principii teologici e ascetici, e prescrizioni di vario genere, è evidentissimo; ma ben di rado li contiene così nettamente formulati e così pronti ad essere utilizzati, come li conterrebbe un codice legale o un sillabo: in altre parole essa non è né va trattata come un formulario, sotto pena di cadere in errori gravi e grossolani. In primo luogo, infatti, bisogna fissare esattamente il senso letterale: ma questa norma è così importante e complessa, che ci terrà occupati particolarmente in seguito.

La Bibbia non è un formulario

In secondo luogo, è vero che la Bibbia è tutta quanta ispirata, secondo la dottrina cattolica; ma, secondo la stessa dottrina, è anche vero che essa contiene le testimonianze di due periodi ben differenti della rivelazione divina: il periodo di preparazione, o imperfetto, che si riferisce all’ebraismo, ed è contenuto nell’Antico Testamento; e il periodo di adempimento, o perfetto, che si riferisce al cristianesimo, ed è contenuto nel Nuovo Testamento. Ora, come il cristianesimo ha la sua teologia, la sua ascesi, le sue prescrizioni pratiche (cose non contenute tutte nel Nuovo Testamento): così aveva tali istituzioni l’Antico Testamento. Ma non per questo la teologia e ascesi dell’Antico Testamento vale anche per il Nuovo; alcuni elementi di quello, sì, valgono anche per questo, giacché passarono dal primo al secondo: altri, invece, furono inesorabilmente abrogati.

Chi conosca anche sommariamente il pensiero di S. Paolo su tale questione, non ha bisogno d’altri schiarimenti. E tuttavia, in pratica, espositori cristiani della Bibbia cadono spesso in questa inavvertenza, di citare (supposto che abbiano ben compreso il senso letterale) esempi, fatti, enunciati, che per il loro spirito non hanno più nel cristianesimo forza probativa, e sono soltanto un codice abrogato. È il fallace principio della Bibbia-formulario: scriptum est nella Bibbia, è ispirato, quindi deve servire a qualche cosa. Sissignore, deve servire a qualche cosa: ma questa qualche cosa non è sempre l’obbligatorietà di quella norma, l’efficacia di quell’esempio, o la fondatezza di quel principio trasportato all’economia del cristianesimo; può essere, ed è in realtà, assai più spesso, un semplice monumento del passato, conservato nell’ispirata Bibbia, con cui Dio vuol ricordare ai figli della rivelazione perfetta per quali ascensionali vie Egli ha voluto elevare l’umanità intera alla vetta del cristianesimo. Chi sta sulla vetta di un monte si volge volentieri a riguardare, in basso nelle valli, le faticose strade che ha battute per giungere lassù: è una veduta che consola; ma dalla vetta egli non pensa mai a discender di nuovo laggiù.

Esempi da addurre ve ne sarebbero parecchi: e su questo punto ne fornirebbero, oltre agli autori ascetici e agli oratori che troveremo spesso in seguito, anche quei liturgisti che, sforniti di soda preparazione biblica, credono di trovare la spiegazione di moltissimi riti e oggetti della liturgia cristiana in prescrizioni dell’Antico Testamento.

Ricordo di averne letto uno recente che, volendo spiegare perché il sacerdote nella Messa debba coprire il calice con la palla, si richiamava alla prescrizione di Numeri, 19,15, secondo cui vas, quod non habuerit operculum…, immundum erit; ma in primo luogo si tratta, come spesso, di una citazione a sproposito, giacché il contesto del passo dimostra che la prescrizione riguardava i recipienti che si trovavano nella tenda in cui era morto un Ebreo; eppoi, non ci voleva un grande sforzo di attenzione a notare quanto fosse inopportuno, o meglio irriverente, applicare quel passo, con le sue parole finali, al calice della Messa.

Non vale la pena di trattenersi su ciò; tuttavia merita di essere segnalato un punto d’intonazione più alta. Si trova addotto, da oratori che prediligono le tinte fosche e anche talvolta da scrittori ascetici, il principio che Dio punisce l’iniquità dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione. È principio enunciato in Esodo, 20,5; 34,7; Numeri, 14,18, e altrove nell’Antico Testamento. Con tutto ciò non si può affatto sostenere che questo principio teologico della retribuzione genealogica fosse l’unico vigente a tal proposito nella rivelazione ebraica; col volger del tempo e con l’avvicinarsi del cristianesimo quel principio non vige più, decade, e già ai tempi dell’esilio babilonese Ezechiele lo proclama a nome di Dio sostituito dall’altro principio della retribuzione strettamente personale (Ezech., 18).

Quanto ai tempi della rivelazione cristiana, non ne parliamo neppure: solo a sfiorare lo spirito della parabola del figliuol prodigo, si conclude immediatamente che ove regna questo spirito non può essere applicato il principio della retribuzione genealogica. È dunque uno dei tanti punti nei quali l’economia della rivelazione cristiana ha abolito e sostituito quella ebraica, il cui principio di retribuzione genealogica è rimasto là nella Bibbia a testimoniare la lunga depressa via per cui Dio ha fatto ascendere l’umanità alla vetta del cristianesimo.

Ma naturalmente questi dati, strettamente storici, bisogna conoscerli ed averli presenti. Invece, perché o non si sanno o non si ricordano, avviene che i suaccennati scrittori d’oratoria o d’ascetica – e, naturalmente, sono cristiani – ti citano, e ti applicano, e ti gonfiano il suddetto principio, Come fosse l’articolo d’un codice divino vigente. Che ha da fare l’abolito vecchio fermento, direbbe S. Paolo, con i nuovi genuini azimi? – Santissimo apostolo, gli si potrebbe rispondere, è un semplice malinteso: cotesti sinceri cristiani adoperano la Bibbia, in buona fede, come un formulario tutto in vigore.

La Bibbia non è un libro “magico”:
Esegesi storica ed esegesi pastorale

Appena è il caso, poi, di ricordare che la Bibbia, se non è un formulario, tanto meno è un libro magico. Nessun cristiano sincero la considererebbe certamente oggi come tale; se, nell’antichità, invalsero fra le plebi di fede rozza abusi che in qualche modo s’ispiravano ad un concetto magico, essi furono combattuti dalla Chiesa e oggi probabilmente sono scomparsi dappertutto. Per fortuna non si stampano più libri quali Il salmista secondo la Bibbia con le virtù di detti Salmi (già nel 1514 a Venezia, e in seguito altrove), ove un Salmo è raccomandato per scongiurare il malocchio, l’altro contro le cavallette, il terzo per la fecondità delle donne, e via di seguito; neanche si praticano più per mezzo della Bibbia le sorti divinatorie, col fare arcani còmputi sulla prima lettera a sinistra d’un Salterio aperto a caso: e neppure si attribuiscono a tre o quattro parole bibliche, scelte con misteriosa sapienza e trascritte con regole speciali, infallibili virtù benefiche in certe occasioni della vita. (Sarebbe anzi, uno studio interessante ricercare in che misura influì su queste pratiche delle plebi cristiane la Cabbala giudaica, diffusissima ancora nel Rinascimento, e che seguiva computi e procedimenti analoghi, ritrovando nella Bibbia il misterioso e l’arcano dappertutto, specialmente nei numeri e nei nomi).

Tutto ciò, dunque, per fortuna è sparito. Eppure può essere lontanamente ricordato da un certo vezzo, ancora oggi qua e là in onore, di ritrovare nella Bibbia l’arcano, il misterioso, il recondito, là dove non c’è affatto.

Si dirà: la Bibbia è divinamente ispirata. Tante grazie; lo sapevamo. Ma bisogna vedere se ogni suo passo, o almeno quelli che voi adducete, contengono realmente queste misteriosità arcane che voi tirate fuori. Credete davvero che i profeti parlassero in estasi, sottintendendo nelle loro parole dieci diversi sensi reconditi, e forse non intendendo neppure essi che cosa dicevano? Ebbene, vi risponde San Girolamo: I profeti non hanno già parlato in estasi come Montano con le sue stolte femmine va sognando, sì da non capire ciò che dicessero e, mentre insegnavano ad altri, essi stessi ignorassero quel che dicevano… Se infatti i profeti furono sapienti, cosa che non possiamo negare…, come i sapienti profeti avrebbero ignorato, a guisa di animali bruti, ciò che dicevano? (In Isaiam, Prol.).

La realtà è che, se moltissime volte la Bibbia è oscura, ciò avviene per varie ragioni che si vedranno in seguito, e nelle quali la misteriosità d’argomento non entra affatto; quando poi l’argomento stesso è misterioso – ad es. la processione del Logos dal Padre nel IV Vangelo – evidentemente esso rimarrà sempre tale, sia nella Bibbia sia fuori di essa; quando infine la Bibbia è limpidamente chiara, se voi ci ritrovate dentro ciò che essa non dice, è puro effetto della vostra pia e pietosa ignoranza.

Non vi offendete di questo termine, egregio contradditore; è S. Agostino che l’impiega; Non hoc habebat divina Scriptura, sed hoc senserat humana ignorantia (De Gen. ad lit. I, 19,38). Ad ogni modo se, prendendo lo spunto da un testo biblico, volete ricamarvi sopra ed elevarvi ad altre considerazioni, fate-puro: lo hanno fatto i Padri a scopi parenetici, e in misura più limitata (giacché non siete un Padre) sarà concesso anche a voi. Ma ricordatevi di presentare i vostri come ricami, non come autentica stoffa biblica, e che ad ogni modo, in tal caso, voi fate della mistica, dell’ascetica, ecc., ma non della genuina esegesi.

Così quando dissertando sulle frequenti frasi bibliche, aperiens os suum, …elevatis oculis, …surgens abiit, ecc., voi scoprite in esse reconditi insegnamenti di lunghi silenzi, di sguardi modesti e gravi, di vita solinga e ritirata, e simili, io posso accettare i vostri insegnamenti morali: ma sul campo esegetico, vi rispondo che quelle frasi sono ordinariamente impiegate nelle lingue semitiche per iniziare un discorso, attaccare un episodio, ecc., senza attribuire loro alcuna accentuazione di significato – Quando a proposito della espressione del IV Vangelo, secondo cui Marta vocavit Mariam sororem suam silentio (Giov., 11,28), io leggo in autori mistici deliziose considerazioni su quel vacare silentio una persona, sono disposto ad apprezzare tutta l’eccellenza di queste elevazioni spirituali: ma quale esegeta della lettera io rimango impassibile, come un qualsiasi Giunio Bruto che condanna i propri figli in nome della legge superiore a lui. La legge esegetica è là, superiore a me, e io non fo che applicarla inesorabilmente: al posto di silentio il testo originale ha [il greco] láthra-i che significa «segretamente», «di nascosto», ed ecco che il «chiamare segretamente» una persona è un’azione ordinarissima e semplicissima. E allora il significato arcano di quel vacare silentio? Si potrà rispondere con S. Agostino che, sotto l’aspetto esegetico, non hoc habebat divina Scriptura, sed hoc senserat humana ignorantia: l’ignoranza del greco…

L’esempio dei Padri non infirma, bensì conferma questa legge esegetica. Prendiamo proprio Agostino. È notissimo, fra altri, il suo passo in cui ragionando del paralitico di 38 anni d’età (Giov., 5,1 e sgg.), egli sembra ricercare nella cifra dell’età di lui la ragione della sua malattia: 40 è cifra perfetta: ad essa mancano 2 anni, che rappresentano i precetti d’amore verso Dio e verso il prossimo; perciò il paralitico era tale, perché mancante di quei due, simbolici anni di età (Tract. XVII, 4, in Joan.). – Tutti anche conoscono il suo passo in cui, commentando il racconto del soldato che trafigge il costato di Gesù morto (Giov., 19,34), egli osserva che l’evangelista si è servito di un vigilanti verbo; costui infatti non dice: latus eius percussit, aut vulneravit, aut quid aliud, sed aperuit, perché fu aperta la porta della vita, donde emanarono i sacramenti della Chiesa (Tract. CXX, 2, in Joan.).

Tutto vero, e tutte bellissime elevazioni. Ma abbiamo in questi passi l’Agostino esegeta, o non piuttosto il pastore d’anime e l’oratore parenetico? L’Agostino esegeta, siamo abituati a conoscerlo da altri suoi scritti: ad es. dal De Genesi ad litteram libri XII, giacché l’esegesi letterale – cioè la vera – del Genesi fu un problema che l’assillò dai primi tempi della sua conversione fino si può dire alla morte, e questo fu l’ultimo suo libro su tale argomento, dopo gli altri che egli stesso nelle Retractationes definisce come tentativi falliti.

Ora, in scritti strettamente esegetici egli non si permette più voli come quelli dei due passi testé visti; e se i due testi evangelici fossero, per ipotesi, ospitati in uno scritto esegetico, c’è da star sicuri che S. Agostino li avrebbe spiegati in tutt’ altro modo. Avrebbe detto che il paralitico aveva 38 anni, perché era nato 38 anni prima, e nel frattempo gli era venuta la paralisi; e, raccogliendo le sue assai scarse cognizioni di greco, sarebbe forse riuscito anche a dimostrare che il vigilans verbum impiegato dall’evangelista, cioè ényxen, equivale praticamente tanto ad aperuit, quanto a percussit e a vulneravit: mentre a rigore, la traduzione che etimologicamente meno gli corrisponde è proprio aperuit.

Ma in quei due passi non è l’esegeta che parla: è il pastore d’anime e il catechista parenetico; il quale inoltre, non solo vuole trasmettere la genuina dottrina cattolica, ma per imprimerla meglio nell’animo rozzamente immaginoso dei suoi ascoltatori, ricorre a quei rilievi e spunti che sembrano dati esegetici, mentre sono semplicemente risorse oratorie. S. Agostino – come del resto gli altri Padri, e la Bibbia stessa – domanda soltanto di esser capito.

Tutta ispirata dunque la Bibbia, e in molti punti misteriosa per la misteriosità stessa dell’argomento: d’accordo. Ma magica, no, in nessun punto. Perché, dunque, non abbandonare del tutto il vezzo di ricorrere a sistemi d’interpretazione che ricordano in qualche modo la Cabbala? Si farà ciò in buona fede a scopo edificativo, senza dubbio; ma qualcuno potrebbe dimostrare che oggi, ai nostri tempi, non solo tale scopo spesso non si raggiunge, ma se ne può ottenere invece un altro del tutto opposto e assai dannoso: di far, cioè, sospettare a molti lettori o ascoltatori che quelli siano i veri argomenti con cui si dimostra la divinità del cristianesimo e la necessità della sua morale.

Si era proposto uno scopo edificativo anche quell’oratore che pochi anni fa – a quanto mi narrò un amico – andava in giro in una certa regione recitando alcune sue conferenze di tipo morale apologetico: le conferenze erano a serie, e purtroppo a serie acrostica, giacché ogni serie illustrava acrosticamente qualcuno dei nomi cristiani più venerati, Gesù, Maria, Paolo, ecc. Ad esempio, se ben ricordo, il nome di GESÙ era divenuto Grazia Eterna Salvezza Universale, ed era perciò argomento di quattro conferenze che dimostravano le rispettive verità del nome.

È chiaro che ogni coscienza cristiana è ben lieta di ammettere quelle quattro verità, e quindi le conferenze – a parte il valore intrinseco – erano giustissime, prese ognuna a sé. L’oratore invece insisteva molto sul legame dell’acrostico, ritrovandovi in ciascun caso misteriose corrispondenze; e ci teneva tanto, che invitato a ripetere le conferenze in una località dove avrebbe dovuto necessariamente parlare un’altra lingua (era una regione bilingue), si vide obbligato a declinare l’invito. L’acrostico andava all’aria, e il legame si sfasciava.

Io stesso poi ho conosciuto un brav’uomo che aveva concentrato tutti i suoi sforzi sul celebre passo ripetuto due volte in Isaia, 28,10-13: Manda remanda, manda remanda, expecta reexpecta, expecta reexpecta, modicum ibi, modicum ibi. Che significa tutto ciò? Evidentemente c’era del mistero – pensava il nostro brav’uomo – e dell’alto mistero; in quella maniera non parla un uomo, parla soltanto Dio (come se Dio parlasse appositamente per non farsi capire). E a forza di riflettere e rimuginare, egli finì per convincersi che quel passo era più o meno la chiave di tutta la Bibbia (a un dipresso come per il Cheyne il suo famoso Jerahmeel: trovava sue interferenze in tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, come pure estraeva, dall’esegesi che egli ne faceva, allusioni alla rivelazione primitiva, a quella dei patriarchi e di Cristo, ai Samaritani, ai protestanti, ai modernisti, ecc: insomma un vero emporio di verità di fede e dati di storia.

Peccato che il brav’uomo, così ben intenzionato, non studiasse quelle parole alla luce del contesto! Se avesse portato, infatti, un po’ più d’attenzione al contesto, avrebbe visto che quelle parole costituiscono una citazione fatta da Isaia; costui infatti là cita la canzonetta di scherno che, per beffarsi dei suoi ammonimenti, gli recitavano quei sacerdoti e profeti, ubbriachi di vino e di sidro, contro i quali egli nel contesto inveisce. Se poi il brav’uomo avesse anche saputo l’ebraico – naturalmente, non ne sapeva un’acca – avrebbe trovato molto verosimile l’ipotesi di dotti moderni, secondo cui la canzonetta schernitrice non era che un esercizio per bambini allo scopo di avvezzarli a pronunziar bene l’ebraico: e quei traviati ubbriachi la recitavano contro Isaia, quasi per invitarlo a rivolgere i suoi ammonimenti a bambini ignoranti, non a loro. Premettono infatti alla canzonetta queste parole:

A chi vuole egli [Isaia] insegnar la dottrina?
A chi farà intendere ammaestramento?
A bambini slattati, divezzati dalle mammelle?

Il nostro esegeta non s’accorgeva del grave pericolo a cui andava incontro con la sua esegesi: che cioè qualcuno, ascoltandolo, ripetesse contro di lui queste parole.